Raccolta di testi pubblicati su giornali e riviste
16-10-2013 |
Il piatto di Marco Zappa Di Gabriele Scanziani |
Il disco della settimana Parlando di musica dialettale lombarda, i nomi noti alla memoria collettiva sono legati a doppio filo alla tradizione comasca e milanese degli ultimi quattro decenni e non solo. Un mondo musicale popolato da personaggi come Nanni Svampa, Jannacci e Gaber o i più recenti Neurodeliri, Gamba de Legn e Davide Van de Sfroos. Non vi è rischio alcuno nel rivolgere le orecchie a questo mondo usando la medesima predisposizione che si avrebbe per il folk americano. Nondimeno, gli approcci variano sia per storia che per scelte musicali. Il battesimo discografico nel Bel Paese vi fu nel 1857, quando la Ricordi (in quell'epoca ancora un'azienda squisitamente familiare) pubblicò una raccolta di canti milanesi in dialetto, mai registrati prima di allora e tramandati unicamente attraverso la tradizione orale. Si tratta di canti della memoria, testimonianze di storie che furono, ritratti di vite comuni ma dai tratti eccezionali. Attivo sulla scena musicale svizzera fin dagli anni ’60, Marco Zappa ha saputo creare uno stile suo ed inconfondibile, identificandosi in particolare nella cultura e nella storia ticinesi e ricercando un’autonomia artistica che sempre più gli ha aperto le strade verso la musica del mondo. In scena Zappa ricorre, accanto alla voce e alle chitarre, anche a diversi strumenti acustici inusuali, come il bouzouki, lo tsouras, il saxonette, gli organetti diatonici, il mountain dulcimer, il liuto cretese e il sitar. L'eccezionale e l'inaspettato sono elementi presenti anche in PolentaEPéss, ultimo lavoro di Marco Zappa. Basti pensare al costante incontro di strumenti culturalmente e musicalmente agli antipodi, come un sax tenore e un sitar, o un flauto contralto e un bouzouki. Nulla di nuovo in realtà, dato che tali sonorità già furono ampiamente esplorate nel rock psichedelico degli anni Sessanta, i Beatles -ben prima di altri- usarono il sitar di Ravi Shankar a più riprese, così come Ian Anderson ebbe il merito e l'ardire di importare il flauto traverso in un mondo rock che, apparentemente, distava anni luce da quello strumento. Nonostante l'ascolto del disco non mi porti a riconoscere l'originalità della scelta strumentale, il modo in cui Zappa dedica spazio a questi suoni non lascia indifferenti. I testi delle 15 canzoni, tutte rigorosamente in dialetto escluse 4, scovano l'eccezionalità di storie ordinarie e mai noiose, successo non da poco in un album del genere. Non è cosa semplice raccontare di un gretto abitante dell'alta Valle di Muggio che, di ritorno dopo essersi arricchito in Argentina, beffa sia i propri parenti che i suoi paesani tutti, nel momento della sua dipartita. È ancor meno facile narrare una tale storia usando tsouras e un salterio, strumento a corde antichissimo, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. È sintomo non solo di una ricerca musicale matura e consapevole, ma anche di un'intenzione -spesso presente nei dischi di Zappa- di conciliazione fra le varie tradizioni folk del nostro pianeta. Un'operazione di unificazione non banale, pianificata in un periodo storico in cui l'attenzione all'ascolto di tali lavori varia pericolosamente quanto le correnti in una giornata ventosa. D'altro canto l'autore bellinzonese sa di cosa parla, le sue origini sono radicate in questa terra e la sua musica ne abbraccia la tradizione, seppur con lo sguardo costantemente volto al rinnovamento. La fusione delle diverse tradizioni è onnipresente e si fa notare anche nella scelta dei testi, uno dei quali è in romanesco, a riprova che (con le dovute difformità) la musica può servire come metaforico luogo d'incontro. Una sorta di punto franco in cui le mescolanze non sono casuali, bensì atte a creare una base comune che noi poveri critici chiamiamo, a volte erroneamente, "suono". È proprio il suono di questa ultima fatica del Nostro, ad essere particolare. Un suono che non risulta mai fine a se stesso. Un suono che strizza gli occhi sia alla tradizione musicale greca e turca, sia a quella indiana. Un suono che spesso è un viaggio fra culture, nella non celata speranza di un incontro arricchente. Tale incontro, va detto, sovente avviene quando Zappa stuzzica la curiosità e la voglia di approfondimento dei più interessati. Un aspetto da non tralasciare è che PolentaEPéss non è un disco per gli addetti ai lavori, si tratta invece di un album pensato per la gente, con le storie della gente, da cantare a chi quella gente la conosce. Nonostante il rischio del folk più radicato sia proprio quello di risultare vacuo per chi è all'oscuro di tali tradizioni, questo disco non corre un simile pericolo. L'azzardo viene evitato dall'alta qualità dei musicisti, eccezionale il sassofonista Bruno Spoerri che mette a disposizione la propria maestria in diverse tracce come "Ul Murin Dal Rantig" e "Dess L'è Una Cà". Canta la sua terra Marco Zappa e lo fa senza cadere nella facile retorica nostalgica, tanto presente quanto ingombrante nel panorama della musica folk italofona e non. Il disco e il suo autore vanno premiati, non tanto sul piano dell'eccellenza tecnica (alla quale peraltro si avvicinano non poco), quanto su quello dell'onestà intellettuale, artistica e umana che ha dato vita a queste quindici piccole storie in musica. Gabriele Scanziani Laureato in scienze della comunicazione e nuovi media. Appassionato di musica e arte, disegnatore e cuoco nel tempo libero e sognatore a tempo pieno. gabriele.scanziani@agendalugano.ch |