Raccolta di testi pubblicati su giornali e riviste
06-03-2017 |
AZIONE Marco Zappa: 50 anni di musica (a cura di Zeno Gabaglio) |
Cinquant’anni di carriera: l’unica duratura carriera della canzone svizzera che si sia svolta dentro (ma anche sopra, sotto e accanto) alla lingua italiana. Questo è il dato incontrovertibile – e incontrovertibilmente fondamentale – che riguarda Marco Zappa, e che ancora una volta in questo inizio di 2017 ripropone il cantautore bellinzonese al centro della cultura musicale della Terza Svizzera. Con un nuovo disco con 18 inediti – “PuntEBarrier” – e con un tour nazionale che inizierà il prossimo 14 marzo al Teatro Sociale di Bellinzona. Interview/Text von Zeno Gabaglio Intervista con Marco Zappa, nello studio MarcoZappaMusic, a Sementina. L’occasione è dunque imperdibile per incontrare Marco e fare qualche passo indietro, per farci raccontare com’è iniziato e come si è sviluppato il suo rapporto con la creatività musicale; in una regione – il Ticino – che dal punto di vista della canzone in lingua italiana non aveva mai offerto esempi illuminanti. Marco Zappa: È iniziato tutto da mia madre, che mi vedeva come interprete-pianista in ambito classico. Abitavamo ancora a Bellinzona ed ero appena un bambino. Ho suonato due anni quasi per forza il pianoforte e mi ricordo che non mi piaceva: dovevo studiare ogni giorno ma avevo ben altre cose per la testa, a quell’età. Negli scout ho poi cominciato a suonare l’armonica a bocca, uno strumento che, a differenza del pianoforte, si poteva portare in giro e con cui si poteva condividere la musica. La sorella di mia madre suonava invece la chitarra, e fu lei a mostrarmi i primi accordi, proprio nel periodo in cui in Italia imperversavano Celentano e i primi “cantanti urlatori”. Mi sono subito appassionato e immedesimato, raccogliendo i miei compagni di ginnasio in un piccolo gruppo con cui suonavamo alle feste degli studenti. in assoluto una delle prime band che si sia mai formata in Ticino.(da togliere) Che possibilità c’erano per chi voleva fare musica, e magari anche condividerla con gli altri? Il bisogno di trovarsi attorno al fare musica effettivamente c’era, ma in genere si rivolgeva alla musica popolare. Anch’io ho passato diversi anni a cantare e suonare la Verzaschina, il Boccalino e le varie canzoni che oggi diremmo folk. Per la musica dal vivo in Ticino c’era, però, ancora una buona offerta di orchestre di musica leggera, cioè gruppi (di anche solo 4-5 elementi) che si esibivano in repertori tra il jazz, lo swing e la canzone; tornando a casa da scuola mi fermavo sempre ad ascoltarli davanti ai bar di Locarno in cui si esibivano, restando sempre affascinato dalla musica che facevano ed imparando accordi nuovi. Ma quella delle orchestrine era comunque una musica “vecchia”! Cosa portò invece Marco Zappa sulla strada ben più moderna del rock? La chitarra elettrica. Durante una serata in cui – con il mio gruppo – suonammo all’Oratorio di Minusio, il prete che organizzava l’incontro diffuse dall’impianto il brano Apache degli Shadows, con quei meravigliosi suoni iniziali di chitarra elettrica riverberata. Fu un colpo di fulmine, e poi, naturalmente, le canzoni dei Beatles!… Quindi all’origine del percorso rock di Marco Zappa ci fu la modernità di un prete? In un certo senso sì: di un prete illuminato! Ma contagiato così – all’improvviso – dal germe della chitarra elettrica, per noi giovanissimi rimaneva un problema: come trasformare i nostri strumenti per cercare di ottenere esattamente quel suono lì? Un amico elettrotecnico mi disse che dalla cornetta del telefono, svitando la parte inferiore (cioè quella in cui si parlava), si poteva ricavare un microfono. Così feci, togliendolo e incollandolo alla chitarra, collegai poi i due fili risultanti all’amplificatore della radio dei miei genitori e ottenni la mia prima chitarra elettrica. Ancora mi ricordo quando attraversavo la città con la vecchia radio legata sul motorino per andare a fare le prove… Di lì a poco – con la band Teenagers – avresti cominciato a fare le cose decisamente sul serio, anche se il centro gravitazionale del tuo universo musicale lo avresti raggiunto qualche anno più tardi, passando dalla lingua inglese a quella italiana. Ci puoi spiegare questa tua fondamentale evoluzione? Ero cresciuto ascoltando pezzi rock inglesi sul mio giradischi, ascoltando mille volte i 45 giri per imparare gli assoli di chitarra e memorizzare i testi. E se anche la conoscenza della lingua era per tutti approssimativa, si scriveva e si cantava in inglese proprio perché i nostri ascolti di quel periodo erano focalizzati sul rock britannico. Oggi paradossalmente critico un po’ quei musicisti che – pur essendo di lingua madre italiana – cantano solo in inglese, e credo di poterlo fare proprio perché anch’io, in fondo, ho cominciato così. I primi due LP li realizzammo in inglese, e l’orgoglio fu che a produrceli c’era la EMI (la casa discografica dei Beatles!) che senza l’inglese non ce li avrebbe mai prodotti. E l’italiano quando arrivò? Il passaggio all’italiano è avvenuto nel 1979. Attorno a noi erano cambiati certi gusti musicali e certi rapporti con l’idea della canzone; ma soprattutto avevo maturato io una nuova consapevolezza: la lingua che usi è come uno strumento, che ti deve appartenere. Le parole che scegli sono come le tue dita su una chitarra: devi sentirle tue, e se non è così il risultato musicale non sarà sincero. Da allora se una storia la vivo in dialetto, non posso che scriverla in dialetto, e se la vivo in italiano, devo scriverla in italiano, e così per le altre lingue. Non si tratta di una scelta obbligatoria e a priori che mi impongo prima di scrivere qualcosa, ma è la stessa storia che voglio raccontare a portarmi sull’inevitabile strada linguistico-espressiva. Infine la musica. Perché se è vero che ti sei presto allontanato dalla convenzione giovanilistica dell’inglese, altrettanto hai fatto da una visione musicale esclusivamente rock, andando a cercare soluzioni meno scontate e – indubbiamente – più ardite. Chi ti ha spinto in questa direzione? Proprio per la svolta testuale in italiano scelsi una veste musicale inusitata: un trio con flauto e violoncello (forse inconsciamente volevo fare qualcosa che piacesse anche a mia madre). La formazione sembrava classica, ma lo spirito era chiaramente rock, anche se per molti si poteva fare rock solo usando una Stratocaster con distorsione. Da allora ho sempre cercato di aprirmi a collaborazioni musicali con musicisti, strumenti e idee ogni volta diversi, e il principio è lo stesso che vale per il testo: è la storia da raccontare che suggerisce – a volte imponendole – soluzioni tecniche e poetiche differenti. Perché altrimenti se usi ogni volta gli stessi mattoni e ogni volta li sovrapponi allo stesso modo, il risultato sarà sempre lo stesso muro. www.marcozappa.ch |